Il miracolo della forma, miracolo ontologico, è un farsi, uno spiegarsi tanto ininterrotto quanto meticoloso. Formarsi è farsi da sé, crescere, realizzarsi. Nell’illusione che il Reale esista, la realtà si forma, si informa. Diventare forma, lasciare che il miracolo si compia attraverso il proprio divenire, è una questione di tratteggi, di abbozzi. Delicate fragilità si agitano, irrequiete, timorose di essere rotte, come entrare dopo tanto tempo in una profonda lettura e temere di interrompersi; esattamente come posare piede in una stanza scarsamente illuminata e accorgersi all’ultimo istante che un nostro caro amico si è addormentato, arrestare perfino il respiro per non sgretolare l’attimo. Davanti a queste delicatezze, a questi innocenti pudori, lo sguardo non sa sopportare il peso della forma che ha appena accolto, si sente in colpa lui per primo, la colpa pura, quella senza oggetto, quella che fa volgere gli occhi sempre altrove quando scopriamo di essere guardati, visti.
Quando le forme di Antonio Haupala si spiegano, silenziose e pacifiche ma tutt’altro che beate – angeli sì, ma della terra –, sono i loro sguardi a tradire la loro essenza. C’è un’assenza di sguardi che, tuttavia, non è un di meno di presenza, come se stando al di là, al di sopra del mondo, non ci fosse più bisogno di vedere, solo di contemplare l’eternità; no, al contrario, quegli sguardi abbassati, distolti, sono quanto di più attuale e quotidiano, vergognoso e, perciò, incarnato, si possa chiedere a queste figure. Niente le può convincere a fissare lo sguardo nel nostro, esse sanno già da sempre che noi, irriverenti e presuntuosi, stiamo qui a fissarle e ci rispondono con la loro ritrosia, apparentemente remissiva ma, in realtà, risposta perentoria: «Anche voi siete visti!».
Fatto questo patto di mutua vulnerabilità, di reciproca visibilità, accettiamo di entrare silenziosamente nel mondo delle forme e ne siamo abbracciati: un’accoglienza calorosa in quanto silente, uno stare tra simili che non ha bisogno di essere spiegato, solo del proprio spiegarsi, svolgersi, formarsi. E affondiamo nel tepore di questo Tramonto sul Mincio, lo sentiamo sulla pelle, inconfondibile e familiare come l’aroma del Tè, così intimo, aspetta due e due soltanto, noi. Del resto, è ciò che ci insegna l’atmosfera in cui siamo penetrati, la forma genuina non è artificiosa o ricercata e questo, lungi dall’essere un cedimento verso il troppo facile o il poco prezioso, è il vero segreto rivelato dalla forma che si fa: non c’è una realtà superiore a un’altra, nessun mondo perfetto da costruire, piuttosto tanti mondi da scoprire. Solo guardandoli, e non è un coraggio da poco, mentre si fanno. E allora, ben consci del tempo che ci scorre tra le dita ma senza concedergli l’onore di preoccuparcene, possiamo finalmente stare, restare a guardare. Senza parole, perché non è di quelle che le forme si fanno, che le vite di queste figure accadono. L’invito che abbiamo ricevuto è ad assaggiare questi frammenti di vitalità morbida; a scostare la tenda e a entrare a far parte. Non siamo qui per intervistare, perciò tacciamo, tacciono loro. Non si spiega lo spiegamento delle forme.
Laddove, nella stasi, non ci sono ansia e premura e, tuttavia, il mondo è tutt’altro che scomparso e dimenticato, proprio là si fanno raggiungere le forme di Antonio Haupala. Un libro, la cura delle piante, scrutare il cielo; gesti che potrebbero suggerirci la loro stanchezza ma, non inganniamoci, non sono rassegnati, non sono meno determinati. Il loro accadere è il puro avvenire, presi mano nella mano come in un Girotondo, si accompagnano e ci accompagnano. Nella pazienza di queste figure c’è tutta la loro forza, in essa si esprime tutta la loro accoglienza; l’attitudine di chi – da perfetto ospite – conosce ciò che lo circonda, vi appartiene completamente e quindi lo possiede e ce ne fa dono, offerta impagabile perché nessun pagamento è richiesto: solo partecipazione. Partecipazione a un mondo, a tanti mondi, raramente nostri, forse impossibili, certamente inestimabili.
Paolo Cappelletti, 25 gennaio 2012