Antonio Haupala: Approdi
Ogni opera d’arte si confronta col silenzio del vissuto in forma di immagine che restituisce mediante la mano dell’artista; è il dicibile dell’impresa dell’artefice perseguita scegliendo di obbedire a un dettato interiore, per poi consegnare al pubblico l’oggetto di tanta fatica, di tanto sapere e spesso di tanto dolore. Il silenzio cui l’opera demanda e domanda è quanto esibisce il corpus delle tele eseguite da Antonio Haupala. C’è silenzio e insieme sospensione nei dipinti che celebrano i rituali domestici, che restituiscono frammenti di vita quotidiana, che riproducono in atmosfere ovattate frammenti di interni, angoli di giardino e scorci di una natura sentita come voce sacra dell’esistente. C’è molto di più da dire su questi temi e sulla loro scelta, sulla loro affezione che perdura imperterrita lungo tutto il percorso creativo di Haupala. La critica spesso richiama la vicenda biografica dell’artista di madre italiana e padre thailandese; nomade e insieme cosmopolita per destino, non subito quanto scelto, egli travasa nei suoi dipinti paesaggi, colori, volti filtrati da una memoria che in quanto durata coagula in immagini visi, brani di natura e oggetti tratti fuori dalla riserva dei ricordi. Bangkok e Indianapolis, dove Haupala ha trascorso l’infanzia e la prima giovinezza, hanno lasciato il posto all’Italia, quella della minuta provincia mantovana, di un paese al confine fra due Regioni, il risultato è la commistione di culture condivise per vicenda personale e vocazione. Abbandonare le metropoli caotiche, le vaste piazze o i grandi edifici non ha comportato la rimozione della propria storia, questa riaffiora in ogni immagine che l’artista ci consegna, immagine che salda gli spazi e i tempi dell’esistenza sempre annodati, fusi con la presenza di quell’essere in presenza che Haupala ci consegna tassello dopo tassello, quasi slide dopo slide del suo cammino di uomo che acquista di opera in opera saggezza e sapienza. L’arte diventa così un lungo e ininterrotto viaggio autoanalitico che il pittore compie con l’ausilio del suo sguardo e della sua tecnica, i mezzi espressivi adottati sono quelli tradizionali ma piegati a una resa di atmosfere trasognate, di luci che folgorano o precipitano in chiaroscuri che addensano le forme. Sembra quasi che un velo impalpabile cali su questi spezzoni di vita e di mondo che conducono l’osservatore in una rêverie forse a nostra volta vissuta o agognata. Eppure se osserviamo le figure, se ci si addentra nel corpo fisico della materia di cui sono fatti gli interni raffigurati nelle tele ci si accorge che hanno un corpo, hanno una struttura, hanno un’anima, quasi restituissero le tracce delle generazioni che hanno usato quelle tazze dai decori esotici, quelle sedute vintage, quei soffici tappeti su cui hanno camminato piedi e riposato corpi di avi, se non di popoli lontani. Gli arredi parlano come parlano le delicate movenze di chi si aggira nel salotto che pare ricordare quello descritto da Guido Gozzano in Signorina Felicita, è la casa avita, è il luogo che pare rinchiudere e invece consente al riguardante di partecipare alla vita domestica e vera degli affetti. Haupala accede alla simbolizzazione del mondo che ha conosciuto e visitato negli anni della sua formazione scolastica e di uomo travasando la moltitudine di voci, di immagini, di suoni nel minuto mondo che ha scelto di rappresentare per essere rappresentato. Si spiega la scelta per lo più di raffigurare una singola figura, essa basta a se stessa perché sola non è, è il contesto che dialoga con il soggetto, ogni cosa ha la sua storia che si inserisce nelle storie di ogni singola entità animata o inanimata che dimora in quel sito e fa la casa, il giardino, la strada sulla quale si leva la polvere dei nostri passi. Lo chiariscono le luci ora nitide, ora ovattate, i chiaroscuri e i bagliori che rivelano l’anima di quanti abitano quella esistenza a cui l’artista aderisce. Se osserviamo i titoli delle sue opere ci si accorge che corrono su un duplice binario, uno è quello che rimanda all’evento, ad un accadimento che nel qui e ora coglie e fissa l’incantamento, se pure in un gesto, per la donna amata, un incantamento che include i gatti di casa e persino le piccole piante animate da una vita segreta. Lavori quali The nella serra con il gatto, Tra i gatti di casa, Tra i fiori di loto, L’angolo delle piccole piante esplicitano questo interesse per la vita sospesa tra un prima e un poi, che fa intuire come l’istante irrevocabile fluisca nel tempo della vita. C’è quasi sempre un “Tra” o un “Con” nelle didascalie di Haupala, le sue opere fanno emergere un vissuto condiviso, il passo felpato dell’umano come quello del gatto, lo scricchiolio dei mobili antichi come quello di una porta che si apre, così il cerchio si chiude sempre nell’incanto dell’ora. Ed ecco che il contingente diventa l’eterno, l’irrevocabile esserci che tornerà presente ad ogni nuovo e pur diverso sguardo: il nostro e dello stesso artista. La seconda via che Haupala predilige è quella dove la didascalia è metafora di una condizione esistenziale, il frammento di vita fissato dal pennello, rubato ai rituali di casa, al fremito della brezza che fa tremare I soffioni, persino la Passeggiata in giardino, L’approdo in una terra sconosciuta quanto esotica diventano titoli che tradiscono la segreta volontà di farne parafrasi di attitudini e di piccole azioni che si amplificano in un dove altro a congiungere immagine e sentire, per dare figura al sentimento. La memoria è anche il filtro che consente all’artista di tratteggiare le labili parvenze di delicati giovani e giovanette dai tratti orientali. Ragazza Yizu, Cerimonia buddista, Butterfly, la già ricordata Passeggiata in giardino come la iconica Contadina consegnano al nostro sguardo di occidentali figure trasognate dal ricordo, immagini che vengono da lontano e che riaffiorano investite da una aurea sacrale, così sembra quasi sentire il penetrante quanto dolce profumo dell’incenso che le avvolge nella satura atmosfera. Titolo, opera, cornice devono diventare un tutto, nulla deve essere separato: linguaggio e dipinto diventano endiadi di cui la cornice fa parte come struttura che tiene vincolata la fonte di ispirazione rivelata nella semplice didascalia; i listelli di legno sagomati, intagliati, dipinti, dorati ancorano il tema dichiarato all’immagine che lo traduce in disegno e colore. Haupala deve tenere tutto sotto controllo, sua è la necessità di dar corpo ai tranche de vie più volte visitati dalla memoria e divenuti parte integrante del quotidiano esperire degli affetti, lui deve chiudere il percorso e per questo la cornice deve dire la parola fine a quel processo di rielaborazione del vissuto in immagine cui l’artefice non può sottrarsi. Resta da tracciare in questo contesto le vie dell’arte e dei maestri che sono stati e restano i filtri culturali adottati da Antonio Haupala, perché lui come nessun artista è autodidatta. È con gli occhi di chi ha già guardato il mondo con la nostra medesima attitudine che traiamo il nostro sostentamento, così nelle opere di Haupala i riferimenti all’humus simbolista, declinato nella versione più gioiosa e floreale di area secessionista e nordica, si confronta con il fertile terreno francese che a partire da Paul Gauguin e Pierre Bonnard trasmigra nella pittura rarefatta e sintetica dei Nabis, declinati secondo la maniera di Félix Vallotton, di Èdouard Vuillard e di Paul Sérusier. Negli interni come nei paesaggi di Haupala il motivo, come direbbe Cézanne, è interpretato fondendo realismo e tensione spirituale, aspirazione a trarre fuori dal naturale la visione caleidoscopica che apparenta ogni forma all’universo. Sarà così che La notte di san Lorenzo si tramuta in un tripudio di stelle, il firmamento ci parla, non è quello in rivolta di Van Gogh quanto quello che come in un arabesco alla Matisse ci fa partecipi di un’unica sostanza e linfa cosmica. Ma la sofisticata cultura cosmopolita di Haupala non può dimenticare la tensione solipsistica delle opere di Edward Hopper. Al di là degli affini tagli fotografici, dell’isolamento delle figure, delle tematiche legate alle presenze femminili Haupala condivide col maestro statunitense, tanto influenzato a sua volta dalla pittura francese di fine Ottocento e dal Simbolismo, la medesima aspirazione all’assoluto, al dicibile che nel frammento della figurazione rivela quel silenzio interiore che in Haupala non è mai, a differenza del maestro americano, solitudine, smarrimento o metafora dell’ombra che alberga in noi. L’arte di Antonio Haupala esorcizza il lutto della vita, tra alto e basso, tra oriente e occidente per ritrovare il nostro centro.
Ogni opera d’arte si confronta col silenzio del vissuto in forma di immagine che restituisce mediante la mano dell’artista; è il dicibile dell’impresa dell’artefice perseguita scegliendo di obbedire a un dettato interiore, per poi consegnare al pubblico l’oggetto di tanta fatica, di tanto sapere e spesso di tanto dolore. Il silenzio cui l’opera demanda e domanda è quanto esibisce il corpus delle tele eseguite da Antonio Haupala. C’è silenzio e insieme sospensione nei dipinti che celebrano i rituali domestici, che restituiscono frammenti di vita quotidiana, che riproducono in atmosfere ovattate frammenti di interni, angoli di giardino e scorci di una natura sentita come voce sacra dell’esistente. C’è molto di più da dire su questi temi e sulla loro scelta, sulla loro affezione che perdura imperterrita lungo tutto il percorso creativo di Haupala. La critica spesso richiama la vicenda biografica dell’artista di madre italiana e padre thailandese; nomade e insieme cosmopolita per destino, non subito quanto scelto, egli travasa nei suoi dipinti paesaggi, colori, volti filtrati da una memoria che in quanto durata coagula in immagini visi, brani di natura e oggetti tratti fuori dalla riserva dei ricordi. Bangkok e Indianapolis, dove Haupala ha trascorso l’infanzia e la prima giovinezza, hanno lasciato il posto all’Italia, quella della minuta provincia mantovana, di un paese al confine fra due Regioni, il risultato è la commistione di culture condivise per vicenda personale e vocazione. Abbandonare le metropoli caotiche, le vaste piazze o i grandi edifici non ha comportato la rimozione della propria storia, questa riaffiora in ogni immagine che l’artista ci consegna, immagine che salda gli spazi e i tempi dell’esistenza sempre annodati, fusi con la presenza di quell’essere in presenza che Haupala ci consegna tassello dopo tassello, quasi slide dopo slide del suo cammino di uomo che acquista di opera in opera saggezza e sapienza. L’arte diventa così un lungo e ininterrotto viaggio autoanalitico che il pittore compie con l’ausilio del suo sguardo e della sua tecnica, i mezzi espressivi adottati sono quelli tradizionali ma piegati a una resa di atmosfere trasognate, di luci che folgorano o precipitano in chiaroscuri che addensano le forme. Sembra quasi che un velo impalpabile cali su questi spezzoni di vita e di mondo che conducono l’osservatore in una rêverie forse a nostra volta vissuta o agognata. Eppure se osserviamo le figure, se ci si addentra nel corpo fisico della materia di cui sono fatti gli interni raffigurati nelle tele ci si accorge che hanno un corpo, hanno una struttura, hanno un’anima, quasi restituissero le tracce delle generazioni che hanno usato quelle tazze dai decori esotici, quelle sedute vintage, quei soffici tappeti su cui hanno camminato piedi e riposato corpi di avi, se non di popoli lontani. Gli arredi parlano come parlano le delicate movenze di chi si aggira nel salotto che pare ricordare quello descritto da Guido Gozzano in Signorina Felicita, è la casa avita, è il luogo che pare rinchiudere e invece consente al riguardante di partecipare alla vita domestica e vera degli affetti. Haupala accede alla simbolizzazione del mondo che ha conosciuto e visitato negli anni della sua formazione scolastica e di uomo travasando la moltitudine di voci, di immagini, di suoni nel minuto mondo che ha scelto di rappresentare per essere rappresentato. Si spiega la scelta per lo più di raffigurare una singola figura, essa basta a se stessa perché sola non è, è il contesto che dialoga con il soggetto, ogni cosa ha la sua storia che si inserisce nelle storie di ogni singola entità animata o inanimata che dimora in quel sito e fa la casa, il giardino, la strada sulla quale si leva la polvere dei nostri passi. Lo chiariscono le luci ora nitide, ora ovattate, i chiaroscuri e i bagliori che rivelano l’anima di quanti abitano quella esistenza a cui l’artista aderisce. Se osserviamo i titoli delle sue opere ci si accorge che corrono su un duplice binario, uno è quello che rimanda all’evento, ad un accadimento che nel qui e ora coglie e fissa l’incantamento, se pure in un gesto, per la donna amata, un incantamento che include i gatti di casa e persino le piccole piante animate da una vita segreta. Lavori quali The nella serra con il gatto, Tra i gatti di casa, Tra i fiori di loto, L’angolo delle piccole piante esplicitano questo interesse per la vita sospesa tra un prima e un poi, che fa intuire come l’istante irrevocabile fluisca nel tempo della vita. C’è quasi sempre un “Tra” o un “Con” nelle didascalie di Haupala, le sue opere fanno emergere un vissuto condiviso, il passo felpato dell’umano come quello del gatto, lo scricchiolio dei mobili antichi come quello di una porta che si apre, così il cerchio si chiude sempre nell’incanto dell’ora. Ed ecco che il contingente diventa l’eterno, l’irrevocabile esserci che tornerà presente ad ogni nuovo e pur diverso sguardo: il nostro e dello stesso artista. La seconda via che Haupala predilige è quella dove la didascalia è metafora di una condizione esistenziale, il frammento di vita fissato dal pennello, rubato ai rituali di casa, al fremito della brezza che fa tremare I soffioni, persino la Passeggiata in giardino, L’approdo in una terra sconosciuta quanto esotica diventano titoli che tradiscono la segreta volontà di farne parafrasi di attitudini e di piccole azioni che si amplificano in un dove altro a congiungere immagine e sentire, per dare figura al sentimento. La memoria è anche il filtro che consente all’artista di tratteggiare le labili parvenze di delicati giovani e giovanette dai tratti orientali. Ragazza Yizu, Cerimonia buddista, Butterfly, la già ricordata Passeggiata in giardino come la iconica Contadina consegnano al nostro sguardo di occidentali figure trasognate dal ricordo, immagini che vengono da lontano e che riaffiorano investite da una aurea sacrale, così sembra quasi sentire il penetrante quanto dolce profumo dell’incenso che le avvolge nella satura atmosfera. Titolo, opera, cornice devono diventare un tutto, nulla deve essere separato: linguaggio e dipinto diventano endiadi di cui la cornice fa parte come struttura che tiene vincolata la fonte di ispirazione rivelata nella semplice didascalia; i listelli di legno sagomati, intagliati, dipinti, dorati ancorano il tema dichiarato all’immagine che lo traduce in disegno e colore. Haupala deve tenere tutto sotto controllo, sua è la necessità di dar corpo ai tranche de vie più volte visitati dalla memoria e divenuti parte integrante del quotidiano esperire degli affetti, lui deve chiudere il percorso e per questo la cornice deve dire la parola fine a quel processo di rielaborazione del vissuto in immagine cui l’artefice non può sottrarsi. Resta da tracciare in questo contesto le vie dell’arte e dei maestri che sono stati e restano i filtri culturali adottati da Antonio Haupala, perché lui come nessun artista è autodidatta. È con gli occhi di chi ha già guardato il mondo con la nostra medesima attitudine che traiamo il nostro sostentamento, così nelle opere di Haupala i riferimenti all’humus simbolista, declinato nella versione più gioiosa e floreale di area secessionista e nordica, si confronta con il fertile terreno francese che a partire da Paul Gauguin e Pierre Bonnard trasmigra nella pittura rarefatta e sintetica dei Nabis, declinati secondo la maniera di Félix Vallotton, di Èdouard Vuillard e di Paul Sérusier. Negli interni come nei paesaggi di Haupala il motivo, come direbbe Cézanne, è interpretato fondendo realismo e tensione spirituale, aspirazione a trarre fuori dal naturale la visione caleidoscopica che apparenta ogni forma all’universo. Sarà così che La notte di san Lorenzo si tramuta in un tripudio di stelle, il firmamento ci parla, non è quello in rivolta di Van Gogh quanto quello che come in un arabesco alla Matisse ci fa partecipi di un’unica sostanza e linfa cosmica. Ma la sofisticata cultura cosmopolita di Haupala non può dimenticare la tensione solipsistica delle opere di Edward Hopper. Al di là degli affini tagli fotografici, dell’isolamento delle figure, delle tematiche legate alle presenze femminili Haupala condivide col maestro statunitense, tanto influenzato a sua volta dalla pittura francese di fine Ottocento e dal Simbolismo, la medesima aspirazione all’assoluto, al dicibile che nel frammento della figurazione rivela quel silenzio interiore che in Haupala non è mai, a differenza del maestro americano, solitudine, smarrimento o metafora dell’ombra che alberga in noi. L’arte di Antonio Haupala esorcizza il lutto della vita, tra alto e basso, tra oriente e occidente per ritrovare il nostro centro.
Renata Casarin, 2023