Nota critica di Renata Casarin

Antonio Haupala: Approdi

Ogni opera d’arte si confronta col silenzio del vissuto in forma di immagine che restituisce mediante la mano dell’artista; è il dicibile dell’impresa dell’artefice perseguita scegliendo di obbedire a un dettato interiore, per poi consegnare al pubblico l’oggetto di tanta fatica, di tanto sapere e spesso di tanto dolore. Il silenzio cui l’opera demanda e domanda è quanto esibisce il corpus delle tele eseguite da Antonio Haupala. C’è silenzio e insieme sospensione nei dipinti che celebrano i rituali domestici, che restituiscono frammenti di vita quotidiana, che riproducono in atmosfere ovattate frammenti di interni, angoli di giardino e scorci di una natura sentita come voce sacra dell’esistente. C’è molto di più da dire su questi temi e sulla loro scelta, sulla loro affezione che perdura imperterrita lungo tutto il percorso creativo di Haupala.
La critica spesso richiama la vicenda biografica dell’artista di madre italiana e padre thailandese; nomade e insieme cosmopolita per destino, non subito quanto scelto, egli travasa nei suoi dipinti paesaggi, colori, volti filtrati da una memoria che in quanto durata coagula in immagini visi, brani di natura e oggetti tratti fuori dalla riserva dei ricordi. Bangkok e Indianapolis, dove Haupala ha trascorso l’infanzia e la prima giovinezza, hanno lasciato il posto all’Italia, quella della minuta provincia mantovana, di un paese al confine fra due Regioni, il risultato è la commistione di culture condivise per vicenda personale e vocazione. Abbandonare le metropoli caotiche, le vaste piazze o i grandi edifici non ha comportato la rimozione della propria storia, questa riaffiora in ogni immagine che l’artista ci consegna, immagine che salda gli spazi e i tempi dell’esistenza sempre annodati, fusi con la presenza di quell’essere in presenza che Haupala ci consegna tassello dopo tassello, quasi slide dopo slide del suo cammino di uomo che acquista di opera in opera saggezza e sapienza. 
L’arte diventa così un lungo e ininterrotto viaggio autoanalitico che il pittore compie con l’ausilio del suo sguardo e della sua tecnica, i mezzi espressivi adottati sono quelli tradizionali ma piegati a una resa di atmosfere trasognate, di luci che folgorano o precipitano in chiaroscuri che addensano le forme. Sembra quasi che un velo impalpabile cali su questi spezzoni di vita e di mondo che conducono l’osservatore in una rêverie forse a nostra volta vissuta o agognata.
Eppure se osserviamo le figure, se ci si addentra nel corpo fisico della materia di cui sono fatti gli interni raffigurati nelle tele ci si accorge che hanno un corpo, hanno una struttura, hanno un’anima, quasi restituissero le tracce delle generazioni che hanno usato quelle tazze dai decori esotici, quelle sedute vintage, quei soffici tappeti su cui hanno camminato piedi e riposato corpi di avi, se non di popoli lontani. Gli arredi parlano come parlano le delicate movenze di chi si aggira nel salotto che pare ricordare quello descritto da Guido Gozzano in Signorina Felicita, è la casa avita, è il luogo che pare rinchiudere e invece consente al riguardante di partecipare alla vita domestica e vera degli affetti. Haupala accede alla simbolizzazione del mondo che ha conosciuto e visitato negli anni della sua formazione scolastica e di uomo travasando la moltitudine di voci, di immagini, di suoni nel minuto mondo che ha scelto di rappresentare per essere rappresentato. Si spiega la scelta per lo più di raffigurare una singola figura, essa basta a se stessa perché sola non è, è il contesto che dialoga con il soggetto, ogni cosa ha la sua storia che si inserisce nelle storie di ogni singola entità animata o inanimata che dimora in quel sito e fa la casa, il giardino, la strada sulla quale si leva la polvere dei nostri passi. Lo chiariscono le luci ora nitide, ora ovattate, i chiaroscuri e i bagliori che rivelano l’anima di quanti abitano quella esistenza a cui l’artista aderisce.
Se osserviamo i titoli delle sue opere ci si accorge che corrono su un duplice binario, uno è quello che rimanda all’evento, ad un accadimento che nel qui e ora coglie e fissa l’incantamento, se pure in un gesto, per la donna amata, un incantamento che include i gatti di casa e persino le piccole piante animate da una vita segreta. Lavori quali The nella serra con il gatto, Tra i gatti di casa, Tra i fiori di loto, L’angolo delle piccole piante esplicitano questo interesse per la vita sospesa tra un prima e un poi, che fa intuire come l’istante irrevocabile fluisca nel tempo della vita. C’è quasi sempre un “Tra” o un “Con” nelle didascalie di Haupala, le sue opere fanno emergere un vissuto condiviso, il passo felpato dell’umano come quello del gatto, lo scricchiolio dei mobili antichi come quello di una porta che si apre, così il cerchio si chiude sempre nell’incanto dell’ora. Ed ecco che il contingente diventa l’eterno, l’irrevocabile esserci che tornerà presente ad ogni nuovo e pur diverso sguardo: il nostro e dello stesso artista.
La seconda via che Haupala predilige è quella dove la didascalia è metafora di una condizione esistenziale, il frammento di vita fissato dal pennello, rubato ai rituali di casa, al fremito della brezza che fa tremare I soffioni, persino la Passeggiata in giardino, L’approdo in una terra sconosciuta quanto esotica diventano titoli che tradiscono la segreta volontà di farne parafrasi di attitudini e di piccole azioni che si amplificano in un dove altro a congiungere immagine e sentire, per dare figura al sentimento. La memoria è anche il filtro che consente all’artista di tratteggiare le labili parvenze di delicati giovani e giovanette dai tratti orientali. Ragazza Yizu, Cerimonia buddista, Butterfly, la già ricordata Passeggiata in giardino come la iconica Contadina consegnano al nostro sguardo di occidentali figure trasognate dal ricordo, immagini che vengono da lontano e che riaffiorano investite da una aurea sacrale, così sembra quasi sentire il penetrante quanto dolce profumo dell’incenso che le avvolge nella satura atmosfera. Titolo, opera, cornice devono diventare un tutto, nulla deve essere separato: linguaggio e dipinto diventano endiadi di cui la cornice fa parte come struttura che tiene vincolata la fonte di ispirazione rivelata nella semplice didascalia; i listelli di legno sagomati, intagliati, dipinti, dorati ancorano il tema dichiarato all’immagine che lo traduce in disegno e colore.
Haupala deve tenere tutto sotto controllo, sua è la necessità di dar corpo ai tranche de vie più volte visitati dalla memoria e divenuti parte integrante del quotidiano esperire degli affetti, lui deve chiudere il percorso e per questo la cornice deve dire la parola fine a quel processo di rielaborazione del vissuto in immagine cui l’artefice non può sottrarsi. Resta da tracciare in questo contesto le vie dell’arte e dei maestri che sono stati e restano i filtri culturali adottati da Antonio Haupala, perché lui come nessun artista è autodidatta. È con gli occhi di chi ha già guardato il mondo con la nostra medesima attitudine che traiamo il nostro sostentamento, così nelle opere di Haupala i riferimenti all’humus simbolista, declinato nella versione più gioiosa e floreale di area secessionista e nordica, si confronta con il fertile terreno francese che a partire da Paul Gauguin e Pierre Bonnard trasmigra nella pittura rarefatta e sintetica dei Nabis, declinati secondo la maniera di Félix Vallotton, di Èdouard Vuillard e di Paul Sérusier. Negli interni come nei paesaggi di Haupala il motivo, come direbbe Cézanne, è interpretato fondendo realismo e tensione spirituale, aspirazione a trarre fuori dal naturale la visione caleidoscopica che apparenta ogni forma all’universo.
Sarà così che La notte di San Lorenzo si tramuta in un tripudio di stelle, il firmamento ci parla, non è quello in rivolta di Van Gogh quanto quello che come in un arabesco alla Matisse ci fa partecipi di un'unica sostanza e linfa cosmica. Ma la sofisticata cultura cosmopolita di Haupala non può dimenticare la tensione solipsistica delle opere di Edward Hopper. Al di là degli affini tagli fotografici, dell’isolamento delle figure, delle tematiche legate alle presenze femminili Haupala condivide col maestro statunitense, tanto influenzato a sua volta dalla pittura francese di fine Ottocento e dal Simbolismo, la medesima aspirazione all’assoluto, al dicibile che nel frammento della figurazione rivela quel silenzio interiore che in Haupala non è mai, a differenza del maestro americano, solitudine, smarrimento o metafora dell’ombra che alberga in noi. L’arte di Antonio Haupala esorcizza il lutto della vita, tra alto e basso, tra oriente e occidente per ritrovare il nostro centro. 

Renata Casarin, 2023

 

Nota critica di Paolo Capelletti

Il miracolo della forma, miracolo ontologico, è un farsi, uno spiegarsi tanto ininterrotto quanto meticoloso. Formarsi è farsi da sé, crescere, realizzarsi. Nell’illusione che il Reale esista, la realtà si forma, si informa. Diventare forma, lasciare che il miracolo si compia attraverso il proprio divenire, è una questione di tratteggi, di abbozzi. Delicate fragilità si agitano, irrequiete, timorose di essere rotte, come entrare dopo tanto tempo in una profonda lettura e temere di interrompersi; esattamente come posare piede in una stanza scarsamente illuminata e accorgersi all’ultimo istante che un nostro caro amico si è addormentato, arrestare perfino il respiro per non sgretolare l’attimo. Davanti a queste delicatezze, a questi innocenti pudori, lo sguardo non sa sopportare il peso della forma che ha appena accolto, si sente in colpa lui per primo, la colpa pura, quella senza oggetto, quella che fa volgere gli occhi sempre altrove quando scopriamo di essere guardati, visti.

Quando le forme di Antonio Haupala si spiegano, silenziose e pacifiche ma tutt’altro che beate – angeli sì, ma della terra –, sono i loro sguardi a tradire la loro essenza. C’è un’assenza di sguardi che, tuttavia, non è un di meno di presenza, come se stando al di là, al di sopra del mondo, non ci fosse più bisogno di vedere, solo di contemplare l’eternità; no, al contrario, quegli sguardi abbassati, distolti, sono quanto di più attuale e quotidiano, vergognoso e, perciò, incarnato, si possa chiedere a queste figure. Niente le può convincere a fissare lo sguardo nel nostro, esse sanno già da sempre che noi, irriverenti e presuntuosi, stiamo qui a fissarle e ci rispondono con la loro ritrosia, apparentemente remissiva ma, in realtà, risposta perentoria: «Anche voi siete visti!».

 

Fatto questo patto di mutua vulnerabilità, di reciproca visibilità, accettiamo di entrare silenziosamente nel mondo delle forme e ne siamo abbracciati: un’accoglienza calorosa in quanto silente, uno stare tra simili che non ha bisogno di essere spiegato, solo del proprio spiegarsi, svolgersi, formarsi. E affondiamo nel tepore di questo Tramonto sul Mincio, lo sentiamo sulla pelle, inconfondibile e familiare come l’aroma del , così intimo, aspetta due e due soltanto, noi. Del resto, è ciò che ci insegna l’atmosfera in cui siamo penetrati, la forma genuina non è artificiosa o ricercata e questo, lungi dall’essere un cedimento verso il troppo facile o il poco prezioso, è il vero segreto rivelato dalla forma che si fa: non c’è una realtà superiore a un’altra, nessun mondo perfetto da costruire, piuttosto tanti mondi da scoprire. Solo guardandoli, e non è un coraggio da poco, mentre si fanno. E allora, ben consci del tempo che ci scorre tra le dita ma senza concedergli l’onore di preoccuparcene, possiamo finalmente stare, restare a guardare. Senza parole, perché non è di quelle che le forme si fanno, che le vite di queste figure accadono. L’invito che abbiamo ricevuto è ad assaggiare questi frammenti di vitalità morbida; a scostare la tenda e a entrare a far parte. Non siamo qui per intervistare, perciò tacciamo, tacciono loro. Non si spiega lo spiegamento delle forme.

 

Laddove, nella stasi, non ci sono ansia e premura e, tuttavia, il mondo è tutt’altro che scomparso e dimenticato, proprio là si fanno raggiungere le forme di Antonio Haupala. Un libro, la cura delle piante, scrutare il cielo; gesti che potrebbero suggerirci la loro stanchezza ma, non inganniamoci, non sono rassegnati, non sono meno determinati. Il loro accadere è il puro avvenire, presi mano nella mano come in un Girotondo, si accompagnano e ci accompagnano. Nella pazienza di queste figure c’è tutta la loro forza, in essa si esprime tutta la loro accoglienza; l’attitudine di chi – da perfetto ospite – conosce ciò che lo circonda, vi appartiene completamente e quindi lo possiede e ce ne fa dono, offerta impagabile perché nessun pagamento è richiesto: solo partecipazione. Partecipazione a un mondo, a tanti mondi, raramente nostri, forse impossibili, certamente inestimabili.

 

Paolo Capelletti

25 gennaio 2012

Nota critica di Fabrizio Migliorati

L’equilibrio dell’ostinarsi d’una solitudine
Intorno ai dipinti di Antonio Haupala 
 

dipinto Antonio HaupalaFigure solitarie. Luoghi popolati da presenze che rimangono estranee e impermeabili le une alle altre, all’altro. In  questi spazi vi è l’inverso di un surplus: vi è un deficit, un meno di presenza nonostante la presenza non venga mai meno. La solitudine chiama sempre la meditazione, una certa attività intellettuale o un atteggiamento di attesa: il  solitario è colui che pensa o che attende un segno, una chiamata. La figura, sola con se stessa, si obbliga al  pensiero, alla riflessione e, di conseguenza, a sentire il proprio corpo, soppesando la propria pesantezza insieme alla propria vitadonna.
Un minus, la presenza che stenta ad imporsi: le figure pagano questo movimento. Un contadino batte il  ferro, una donna, investita dalla dolce luce solare, offre una vita immacolata avviluppata nella maternità, Anita  suona una chitarra dalla quale non pare sortire alcun suono. Un silenzio che suggerisce una necessaria cautela d’approccio alle opere: afonie che inquietano eppure rilassano. Figure della quotidianità intesa, però, nella sua ricca  banalità e nelle connessioni con i propositi escatologici più profondi. La quotidianità è, spesso, concepita come l’essere presi nelle faccende, nelle commissioni che devono essere sbrigate. Quotidianità povera. A questa logica si oppone un essere intraprendenti, un essere, cioè, presi fra le cose, fra più cose: scegliere e continuamente proporsi  orientandosi verso nuove sfide, nuove avventure. L’essere intraprendenti rompe con la quotidianità classicamente concepita e propone un individuo maggiormente attivo, provocante il suo destino e non attendista (nell’attesa, sia  chiaro, non vi è nulla di negativo). I lavori di Antonio Haupala mostrano una quotidianità che si situa in una posizione mediana tra quelle precedenti ma non interlocutoria. Una quotidianità intromessa. Una dimensione fra  senza essere con. Vi è una resistenza al dialogo che è sia endogena sia esogena al quadro. Opere impossibili da provocare ma fondamentalmente aperte: puro gesto di offerta. Possiamo avvicinarci ai lavori di questa artista con delicato rispetto e, nonostante l’indomita volontà autoptica dell’uomo, essi resistono e non si fanno anatomizzare. Dal dialogo si passa alla contemplazione.
Anche i personaggi raffigurati resistono alla comunicazione interna. Non veri personaggi ma figure che sono in questi quadri senza che la loro presenza sia piena. Un meno di presenza che passa anche dalla resistenza formata dal silenzio,  ostinato e pietroso. Ogni vita raffigurata non ci volge lo sguardo e non lo fa nemmeno verso i compresenti. Non vi sono incontri di sguardi poiché ognuno conduce una vita che lo orienta, insieme al suo sguardo, altrove. I  personaggi resistono ad ogni dialogo  mentre  perdono quietamente  la  loro  presenza. Le  ragazze  al  fiume  sono   monadi autoreferenziali, accostate, vicine, mai veramente amiche. Dipinto di Antonio HaupalaLa fisicità si trasforma e la carne pare cristallizzarsi, bloccandosi per un’ultima volta, nell’ultimo istante. Sulla soglia dell’oggettuale. Le figure dipinte si fanno ancora più dipinte divenendo decorazioni di teiere cinesi. Poco importa che siano cinesi, orientali. Queste  figure sono figure nella figura, dipinte nel dipinto e obbligate a rimanere, a restare esse medesime, malgrado tutto. Il meno di presenza tocca qui il culmine poiché la presenza svanisce indurendosi nella porcellana, nel corpo del recipiente del tè. Tutte le figure del nostro artista hanno la peculiarità di andare verso questa oggettualizzazione, questa sottrazione di “persona”. Ciononostante, l’evento del divenire oggetti, o forse è più corretto dire, il rischio della trasformazione, è lungi dall’essere una minaccia. C’è solamente una meravigliosa libertà di lasciarsi andare,  permettendo al proprio corpo di volgersi in altro, senza mai divenire osceno. Il corpo si lascia scorrere, perdendosi, indurendosi o svanendo dietro ad un soffio.
L’ispirazione fa parte da secoli del linguaggio artistico e designa il momento e il sentimento creativo  per  eccellenza,  l’istante  che  crea  l’opera  d’arte. Secondo questa idea  un  dio  instilla nell’animo un pensiero, un affetto, e l’uomo diviene traduttore di questa potenza, spossessato da sé ed in piena sua presenza. Ma l’ispirazione è  anche quel momento fisiologico di presa d’aria, di acquisizione di energia, quel lungo respiro che gonfia i polmoni  a cui segue l’attimo esplosivo, l’espulsione, l’espirazione.
Dipinto di antonio HaupalaL’ispirazione  è  tale  non  perché  anticipa qualcosa,  quel  particolare  secondo  momento, la sua diastole, ma è  poiché è anticipazione compiuta in essa stessa. Essa ha fine e si completa senza residui, senza scie. Non vi sono aloni che rimangono, a dispetto di quelle patine che sembrano essere depositate dal tempo su questi dipinti. Forse dal ricordo.
Le opere di Haupala si situano al termine del movimento di ispirazione (o di inspirazione, non vi è differenza), quando il corpo carico d’aria si sospende per un ultimo momento, tremando. Il respiro raggiunge il suo culmine, l’attimo di sospensione del pathos. Un attimo incalcolabile, che svanisce nel momento in cui cerchiamo di trattenerlo, di allungarne i tempi. L’involontario apparire di questo limitare è  equilibrio,  gioco  leggero  tra  pesi  e  volumi  che  accade  quasi  fosse  in  sua assenza. Vulnerabile. Dolcezza di un istante di completa offerta.

 
Fabrizio Migliorati - 2011

Nota critica di Floriano De Santi

La trame del “tempo perduto” nell’opera di Antonio Haupala di Floriano De Santi

I

L’idea che guida fondamentalmente la pittura di Antonio Haupala è la riconduzione dell’immagine a un’intensità e intimità vitali che privilegiano l’essenziale. Eppure questo avviene secondo un percorso espressivo e ugualmente “decorativo” - con tasselli vibranti su molteplici scene e figure indispensabilmente femminili, e con colori caldi e soffusi, e velature musicali e sensive -, che non rinnega l’Erfahrung, l’esperienza simbolista,  ma la conduce verso una forma che, proprio perché intesa a risolversi in un colore-ritmo, più propriamente corrispondente alla visione contemplativa dell’artista, dà origine a una silhouette dove ogni rosso o verde o giallo si distende in calibrate partiture cromatiche, definendo una precisa posizione spaziale nel dipinto.
La fumatriceÈ un percorso che ci riporta alla nostra tradizione centro-europea e a una figurazione memore di quanto interveniva in arte tra Otto e Novecento. Ovviamente Haupala è un pittore vivamente contemporaneo. Ma questa sua duplice e forse contraddittoria cifra stilistica - essere moderno e rammemorare l’antico, essere vissuto nell’adolescenza e avere anche origini asiatiche può apparire  in fatto molto italiano - si accompagna a una speciale concezione della definizione delle atmosfere pittoriche, tale da consentire finanche alla tavolozza "orientale" di Haupala (quella, per intenderci, di oli quali Yasodhara e Siddharta e La fumatrice), di restare sempre entro il dettato pittorico e ben distante dal pittoresco, spingendosi per lo più a instaurare confronti tra assoluti, il lieblicher Bläue – per citare Hölderlin – o altre essenze figurative, lo spazio-struttura da un lato e le figure umane dall’altro, senza mai oltrepassare quel limite di tenuta realistica che invece Matisse candidamente infranse sino a sacralizzare evanescenze da numen lumen.
Le determinazioni haupaliane di ordine estetico-costruttivo e non empirico, vere elaborazioni plastiche dell’osservazione tramite isolamento ed esaltazione delle specifiche qualità formali, sono a fondamento di diffusi effetti lirici frutto proprio della riduzione dell’elemento referenziale in nome della sua pura vibrazione memoriale. Si lega, insomma, a una sorta d’inquadramento degli spunti iconici per stazioni tematiche oltrechè semantiche concernenti essenzialmente le esperienze femminili (Le acrobate, Le sartine, Le cuoche, Le due amiche, La partita di dama, La maga), tuttavia tradotte dalle discendenze laministiche e policrome in una sorta di campo percettivo di maggiori profondità, disvolte in vere e proprie suites figurali dove tutto musicalmente diviene e tutto però rimane intatto.
Il grande spettacoloProfili decorativi, purificazioni incessanti del nucleo figurativo, contrasti luce-ombra, diagonali prospettiche o rèpoussoir la cui finzione compositiva sta ai limiti dell’illusione di profondità, pennellate verticali definitorie della superficie o coulisses incaricate di centrare la visione addensandovi l’integrale della sensazione, schemi anche metaforici sui quali poggia un vasto sistema di relazioni compositive, sono alcuni degli elementi del paysage de style di Haupala. Essi realizzano una specie di trascendenza dell’accadimento quotidiano a mezzo dello studio dei trascorrimenti e dei contrasti luminosi, e delle forme e dei piani:talora persino rinunciando a un impianto disegnativo forte per lasciare tutto campo al “colore significante”.

II

La più ampia e raffinata ricchezza di sentimenti, come la comprensione più intelligente dei nuovi principi stilistici, possono esprimersi nella misura, apparentemente ridotta, di un aneddoto, di una cosa vista, di una fable. Alle composizioni allegoriche, cariche di messaggi e di programmi, Haupala preferisce e sostituisce subito le semplici immagini di una cronaca affettuosa e silenziosa. Ai ritmi elaborati ed esterni, ai rabeschi esoterici ed ingenui, ai secchi purismi che gli infervorati post-moderni deducono dalle opere di Ranson e di Puvis de Chavannes,  egli oppone un linguaggio altrettanto sofisticato ma ben di altra acutezza e misura, regolato da una sintassi poetica tanto più attenta a rispettare i valori primi della pittura.
Nelle tele del 2002 Donna con basco e Lo scialle di seta Haupala parte dalla visione diretta, dall’emozione più spoglia e sincera, e la comunica con la più rarefatta allindatura, con coltissimi giochi formali, ma per acuirne il significato di affetti, per chiarire, di quella immagine, il proprio sottile giudizio. E quando si mette l’anno appresso – con Il grande spettacolo e con Passatempi notturni – sulla via del rabesco decorativo o della linea sinuosa, del modern-style, lo fa apertamente, quasi sorridendo delle speciose giustificazioni teoriche di tanti artisti della sua generazione, abbandonandosi in pieno alla grazia arricciolata e carica del gusto più databile.
Alessandra nella verandaSi sa quanta parte abbiano avuto la sensibilità maladive di Verlaine, il cristallino linguaggio di Proust e l’aperta misurata chiarezza di Bonnard e di Vuillard, nella cultura di Haupala. Sarebbe da accennare pure ad un influsso - di breve durata - della poesia angosciata dei nordici, di quell’ansia psicologica e tormento erotico. Già in dipinti come Pulizia dei bicchieri e Sharazad pare di cogliere un qualche legame con certe allucinate immagini di Munch; non più che accenni, parentesi, ma indicative della complessità dell’ispirazione dell’artista, del suo sempre attento partecipare agli interessi del tempo.
Nelle opere più recenti - da Pensieri serali a Risveglio e ad Alessandra nella veranda - cambiano l’intensità e il tono dei colori, ma i lavori creativi di Haupala sono però sempre ordinati sulla base di una rara e singolare ondulazione tonale, impostata secondo spunti di luce vera, e la ricerca di un linguaggio per correspondances de formes. Ora gli oggetti e le figure sono costruiti in una sostanza perlacea, di lume sommesso (L’atelier), ora invece li scandisce un gioco arduo di forti colori opposti, di contrappunti acri ed esatti (Adesso esco!). La nuance e la giustapposizione più intensa si    alternano, si fondano; ogni cosa, ogni ambiente, ogni gesto, sono ritrovati nella durata del sentimento: si ricrea, in queste immagini, la proustiana trama di un "tempo perduto".

Floriano De Santi - 2004

Nota critica di Renata Casarin

"L'estetica dell'esistere e l'arte del fare"

La necessità d’essere artista, uomo creativo al centro dell’essere e del sé, di Antonio Haupala ha radici lontane. Nato nel 1956 da padre thailandese e madre italiana, egli ha fuso i sapori, i profumi orientali con l’eclettismo culturale degli Stati Uniti dove, nella città di Indianapolis nello stato dell’lndiana, ha vissuto l’adolescenza prima di giungere in Italia per compiere gli studi scientifici e laurearsi in giurisprudenza a Bologna.
Le sue prove iniziali sono composizioni lussureggianti, evocatrici di paesaggi esotici nei quali predomina l’onirismo di figure abbandonate alla nostalgia, alla memoria, senza tuttavia mai smarrire la coscienza della loro storia. La rivisitazione di Gauguin e degli artisti Nabis legati alla cerchia di Pont-Aven è funzionale al percorso critico d’interrogazione sui propri strumenti espressivi e d’empatia culturale che Haupala non abbandona, per obbedire all’esigenza di dar forma all’unicità della propria verità umana e artistica.
Per questo oggi la pittura è la sua professione, compito inderogabile a dipingere quanto gli occhi hanno visto, a fissare ciò che il cuore ancora sente. La percezione dell’esistente coincide con l’estetica del fare; così Antonio Haupala ferma sulla tela “tranche de vie”, immagini domestiche nelle quali la via decanta e distilla la ragione degli affetti.
Intimità, calore, gesti lenti, felici abbandoni, emergono dai quadri di Haupala: le azioni in se stesse non hanno significato, acquistano senso solo come forme di una vita autentica, irrinunciabile. Afferrare l’immagine dei figli che giocano, della compagna intenta a leggere o che si prepara per andare al lavoro, vuol dire mettere in equilibrio il disordine del vivere, restituire per sé e per chi guarda un modo di pensare al tempo e alla storia degli uomini.
La casa è il microcosmo dove anche gli oggetti, gli animali, le case inanimate, raccontano di un esserci che vuole pacificare gli opposti, sanare le ferite, annullare le distanze o comprendere tutte le misure per fare della memoria un unico grumo di coscienza.
La tradizione del Simbolismo introspettivo e autoanalitico è la fonte figurativa a cui guarda Haupala. Whistler, Vuillard, Vallotton, gli hanno insegnato che la realtà è il luogo della trasformazione e condensazione simbolica del visibile in forme di rispecchiamento e d’incontro con l’altra parte del sé. Si spiegano i tagli improbabili delle scene, la funzione di specchio degli interni dove lo sfondo rivela la figura, la compenetra per dar vita a una fenomenologia dell’esserci. Nessuna tensione trapela, l’ordine del sentire regna: i corpi, come le cose sono immagini solidali, indissolubilmente legate alla percezione dell’lo contro l’apparenza e la falsità di quanto stagna in superficie.
In questo regno armonico nulla indulge al decorativismo; come i maestri simbolisti dell’area francese e tedesca, sino agli esiti metafisici dell’italiano Casorati, Haupala sa che si tratta di piegare il colore e la forma al dettato dell’arte, d’affermare la coscienza del sentire e l'intelligenza dell’esistere.

Renata Casarin - 1997

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